Per qualche anni siamo stati accompagnati da una malattia di cui prima non conoscevamo nemmeno l’esistenza. Ci ha reso ancora una volta consapevoli di quanto sia vulnerabile la vita umana. Da sempre le persone hanno dovuto subire il fatto che la malattia può irrompere nella vita e cambiarla profondamente, fino a minacciarla mortalmente. Questo ha lasciato tracce profonde anche nei Salmi biblici.
Traduzione dal tedesco: Italo L. Cherubini
Nei Salmi biblici, la vita è espressa in tutte le sue dimensioni. Lode e ringraziamento, esultanza e gioia, supplica e fiducia, rabbia e disperazione, nonché lamento disperato. Il gruppo più numeroso del libro biblico dei Salmi è costituito dai Salmi di lamentazione. Singoli individui o un gruppo, l’intera comunità, esprimono la loro paura, il dolore, l’angoscia e la disperazione davanti a Dio. Anche le limitazioni fisiche e le malattie giocano un ruolo importante. Nei lamenti su queste cose, chi prega non usa mezzi termini:
«Svaniscono in fumo i miei giorni
e come brace ardono le mie ossa.
Falciato come erba, inaridisce il mio cuore;
dimentico di mangiare il mio pane.
A forza di gridare il mio lamento
mi si attacca la pelle alle ossa.
Sono come la civetta del deserto,
sono come il gufo delle rovine.
Resto a vegliare:
sono come un passero
solitario sopra il tetto.» (Salmo 102,4-8)
Anche oggi, molte persone possono ritrovarsi in queste parole. Lo shock di una diagnosi terribile, un dolore che non cessa, una malattia che non può essere curata, le preoccupazioni per la propria vita o per quella di una persona cara: queste cose oscurano la vita, fanno passare tutto il resto in secondo piano, tolgono il sonno e ogni forza.
«Sono tutto curvo e accasciato,
triste mi aggiro tutto il giorno.
Sono tutti infiammati i miei fianchi,
nella mia carne non c’è più nulla di sano.
Sfinito e avvilito all’estremo,
ruggisco per il fremito del mio cuore.» (Salmo 38,7-9)
Una persona in agonia, piena di dolore, in balia della malattia, impotente e senza speranza. Ci sono anche conseguenze sociali: i vicini e le amiche e gli amici abbandonano la persona infelice, che rimane sola:
«I miei amici e i miei compagni
si scostano dalle mie piaghe,
i miei vicini stanno a distanza.» (Salmo 38,12)
È difficile che la situazione possa peggiorare. Ancora oggi, queste parole ci colpiscono al cuore, ci scuotono nel profondo o, con il loro sincero lamento, ci aiutano a trovare le parole per la nostra angoscia e il nostro dolore.
È possibile lamentarsi
È notevole con quale apertura, ma anche con quale impietosa crudezza, le persone esprimano la loro sofferenza nei Salmi. Da una prospettiva biblica, è ovviamente lecito lamentarsi. Questo va notato prima di tutto. Perché i cristiani ben socializzati, almeno quelli più anziani, non hanno imparato che la sofferenza va accettata senza lamentarsi? I Salmi biblici insegnano qualcosa di diverso. Qui, tutta la sofferenza è esposta davanti a Dio, gli viene presentata, persino scagliata contro di lui: «Ecco come sono le cose per me. È terribile. È insopportabile. Non ce la faccio più».
Molte persone hanno già sperimentato nella loro vita quanto sia importante poter esprimere la sofferenza e il dolore. Quanto è bello quando una persona ascolta, sopporta tutto ciò che è difficilmente sopportabile, e non sa subito che non è poi così male e che tutto tornerà a posto. Ci sono momenti in cui le cose vanno male, in cui tutto fa male, in cui è insopportabile, in cui non si ha la forza di credere che le cose miglioreranno. Questo è il momento in cui si ha bisogno di persone con un orecchio aperto e un cuore compassionevole che siano semplicemente lì. È ancora peggio quando, come la persona che prega nel Salmo 38, si deve sperimentare che le persone fidate si ritirano e ci abbandonano quando ne abbiamo più bisogno.
È bello sapere che si può dire tutto questo anche a Dio. Con parole proprie o prendendo in prestito le parole dai Salmi.
Perché?
Chi prega con i Salmi non si limita a esporre tutte la propria sofferenza davanti a Dio, si chiede anche perché. Perché tutto questo mi riguarda? Che cosa ha a che fare con me? Che cosa ha a che fare con Dio?
È sconvolgente vedere come la persona che prega il Salmo 38 incolpi se stessa e veda la mano di Dio all’opera nella malattia che l’ha colpita:
« Le tue frecce mi hanno trafitto,
la tua mano mi schiaccia.
Per il tuo sdegno, nella mia carne non c’è nulla di sano,
nulla è intatto nelle mie ossa per il mio peccato.
Le mie colpe hanno superato il mio capo,
sono un carico per me troppo pesante.
Fetide e purulente sono le mie piaghe
a causa della mia stoltezza.» (Salmo 38,3-6)
La malattia come conseguenza della propria colpa o addirittura come punizione di Dio? Si tratta di un argomento estremamente difficile. Certamente non si devono fare connessioni troppo generiche! Con la dovuta cautela, si può forse dire: sappiamo tutti che uno stile di vita poco sano aumenta il rischio di contrarre alcune malattie. Sappiamo anche che uno stile di guida azzardato o uno sport rischioso aumentano il rischio di avere un incidente. Sappiamo tutti inoltre che il senso di colpa non affrontato può farci ammalare e letteralmente schiacciarci, come dice il Salmo 38. A volte, quindi, è possibile stabilire un collegamento tra la propria cattiva condotta e le relative conseguenze.
MA: sappiamo anche che queste correlazioni non sono affatto sempre scontate. Anche con lo stile di vita più sano si può essere colpiti da una grave malattia, anche se si guida con prudenza si può essere coinvolti in un grave incidente e anche se si conduce una vita esemplare, la vita può spezzarsi. La figura biblica di Giobbe ne è un esempio drastico. A ragione, Giobbe rifiuta categoricamente di cercare colpe nella sua vita per spiegare ai suoi amici la sua malattia e il suo pesante destino. E l’autore del Libro di Giobbe gli dà ragione: Giobbe non ha fatto nulla di male, non c’è colpa, eppure è stato colpito così duramente.
Pertanto, è importante affermare chiaramente: anche se alcuni Salmi fanno un collegamento tra la colpa umana e la malattia come punizione di Dio, possiamo rifiutarlo sull’esempio di Giobbe. Può causare una sofferenza infinita rimuginare sulla propria colpa quando non ce n’è, e dichiarare la malattia come una punizione di Dio quando Dio è in realtà un Dio di vita, di misericordia e di cura. Lo psicoanalista Tilmann Moser ha definito questi circoli viziosi di paura «avvelenamento da Dio».1 Può distruggere le persone. Possiamo coraggiosamente dire addio a queste immagini tossiche e pesanti di Dio e chiedere piuttosto con i Salmi: come posso risolvere i problemi? Come può Dio aiutarmi?
Da dove viene la speranza?
Molti Salmi lo dimostrano: chi prega si aspetta che Dio lo aiuti in modo molto concreto. Invoca Dio con tutta la propria forza, esorta e implora. Questo è anche il caso dell’orante nel Salmo 38:
«Non abbandonarmi, Signore,
Dio mio, da me non stare lontano;
vieni presto in mio aiuto,
Signore, mia salvezza!» (Salmo 38,22-23)
Il Salmo 13 dice già all’inizio:
«Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi?
Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?
Fino a quando nell’anima mia addenserò pensieri,
tristezza nel mio cuore tutto il giorno?
Fino a quando su di me prevarrà il mio nemico?
Guarda, rispondimi, Signore, mio Dio,
conserva la luce ai miei occhi,
perché non mi sorprenda il sonno della morte.» (Salmo 13,2-4)
Spesso e volentieri leggiamo questo nei Salmi: «Quanto tempo ancora?». Non ci si aspetta che la risposta sia un tempo: «Un’altra settimana, altri tre anni…». Piuttosto, questo «Quanto manca?» non è altro che una richiesta urgente: «Intervieni, Dio, presto, prima che sia troppo tardi! ». Il guerriero in preghiera nel Salmo 13 porta la propria possibile morte davanti agli occhi di Dio, se Dio non lo aiuta: «perché non mi sorprenda il sonno della morte ».
Il Salmo 6 lancia anche un appello urgente a Dio, perché altrimenti potrebbe essere troppo tardi:
«Trema tutta l’anima mia.
Ma tu, Signore, fino a quando?
Ritorna, Signore, libera la mia vita,
salvami per la tua misericordia.
Nessuno tra i morti ti ricorda.
Chi negli inferi canta le tue lodi?» (Salmi 6,4-6)
Non potrebbe essere più drastico: Dio dovrebbe intervenire e aiutare la persona che prega prima che sia troppo tardi, cioè quando la persona che prega è scesa nel regno dei morti. Lì, infatti, nessuno loderà più Dio; perché secondo le idee dell’Antico Testamento, Dio non c’è comunque; è piuttosto un Dio dei vivi.
Troviamo molte suppliche urgenti di questo tipo nei Salmi di lamentazione. Dio deve intervenire: per la sua bontà, per la sua gloria, per la giustizia, per gli uomini che devono vedere la bontà di Dio, e così via. Le preghiere trovano molti motivi per cui Dio dovrebbe intervenire. Le esperienze dei Salmi lo dimostrano: Dio si avvicina e aiuta.
Dio ha aiutato
Quasi tutti i Salmi di lamentazione mostrano una sorprendente svolta dal lamento abissale alla lode e al ringraziamento. Questo riflette l’esperienza di non essere rimasti soli in tutta la paura, l’angoscia e la disperazione, ma di aver sperimentato la salvezza. Ancora un po’ trattenuto, ascoltiamo l’orante del Salmo 38, che aveva cercato così tanto la propria colpa. Ma anche lui esprime la sua fiducia in Dio con cauta sicurezza:
«Perché io attendo te, Signore;
tu risponderai, Signore, mio Dio.» (Salmo 38,16)
Altri Salmi, invece, sono già pieni di gioia e di gratitudine quando esprimono la salvezza dalle sofferenze:
«Hai mutato il mio lamento in danza,
mi hai tolto l’abito di sacco,
mi hai rivestito di gioia…» (Salmo 30,12)
Danzare invece di lamentarsi: che immagine meravigliosa per la salvezza sperimentata. Vogliamo subito unirci, ballare e gioire. Per questa persona che prega è chiaro che Dio ha aiutato.
Anche l’orante insistente del Salmo 6, che voleva che Dio intervenisse al più presto prima che fosse troppo tardi, può dire con gratitudine e fiducia alla fine:
« Il Signore ascolta la mia supplica,
il Signore accoglie la mia preghiera.» (Salmo 6,10)
Allo stesso modo, il Salmo 13 sfocia in un profondo ringraziamento a Dio per l’aiuto ricevuto e nella promessa di cantare lodi a Dio:
«Ma io nella tua fedeltà ho confidato;
esulterà il mio cuore nella tua salvezza,
canterò al Signore, che mi ha beneficato.» (Salmo 13,6)
L’esegesi ha discusso molto su questo cambiamento d’umore nei Salmi di lamentazione. Forse queste preghiere sono state formulate a posteriori, dopo aver sperimentato la salvezza. I testi in cui c’è un ringraziamento alla fine si inseriscono in questo contesto.
Forse il passaggio alla fiducia riflette anche l’esperienza che qualcosa di importante accade già nel processo di preghiera: quando si permette all’angoscia, al dolore, alla paura e alla disperazione di essere espressi e manifestati davanti a Dio, e si invoca l’aiuto di Dio, all’inizio può crescere la fiducia che Dio ascolterà davvero la preghiera e interverrà per salvare. Chi si rivolge a Dio non è solo nel suo bisogno e può sapere di essere nelle mani di Dio. Questo può dare la forza di non disperare nonostante il dolore e la sofferenza, ma di guardare alla vita con rinnovata fiducia.
Quando rimane l’oscurità
Sono pochi i salmi che non fanno questo passaggio dal lamento al ringraziamento e alla lode. Il Salmo 88 è probabilmente il più triste dei Salmi di lamentazione. Per due volte la persona che prega ha già invano invocato Dio per la salvezza (Salmo 88,2, 10), Dio che all’inizio è ancora chiamato «Dio della mia salvezza» (Salmo 88,2). L’orante fa poi un terzo tentativo nel versetto 14:
«Ma io, Signore, a te grido aiuto
e al mattino viene incontro a te la mia preghiera.» (Salmo 88,14)
Ma anche questo grido di aiuto sembra rimanere inascoltato, e così il Salmo si conclude non con un ringraziamento o una lode, ma con un rimprovero a Dio che non ha eguali nei Salmi:
«Hai allontanato da me amici e conoscenti,
mi fanno compagnia soltanto le tenebre.» (Salmo 88,19)
Non si può negare che tali esperienze esistano ancora oggi. È notevole che anche una disperazione e un’oscurità così profonde trovino posto nella Bibbia e possano essere portate davanti a Dio. Sì, è permesso lottare e discutere con Dio. I Salmi non lesinano rimproveri a Dio. Questo non deve essere messo frettolosamente in secondo piano.
Tutto questo dimostra: i Salmi offrono spazio a tutte le esperienze di vita immaginabili. Sono quelli che la poetessa Nelly Sachs ha definito «rifugi notturni per le ferite del cammino». Così si esprime in una poesia su Davide, che nella tradizione è considerato l’autore di molti Salmi:
«Ma in età matura
lui, padre dei poeti
in preda alla disperazione
per la distanza da Dio,
costruì i rifugi notturni dei salmi
per le ferite del cammino.»2
- Tilmann Moser: Gottesvergiftung, Francoforte sul Meno 1976.
- Nelly Sachs: Sternverdunkelung, Amsterdam 1949. In italiano nella raccolta: Poesie (con testo tedesco a fronte), Torino 2006.
Crediti d’immagine: Copertina: Testa astratta. Alexej von Jawlensky, olio su tavola 1922, collezione privata. Immagine: steeve-x-art, Alamy / Immagine 1: Corridoio di un ospedale in bianco e nero. Unsplash@antesamarzija / Immagine 2: Due persone impegnate in una conversazione. Unsplash@reka / Immagine 3: Satana riversa le piaghe su Giobbe. Illustrazioni del Libro di Giobbe, The Linnell Set, oggetto 6, William Blake, 1821 / Immagine 4: Un’ambulanza corre con luci blu. Unsplash@camstejim / Immagine 5: Una donna che balla sotto un arcobaleno su una spiaggia. Unsplash@drewcolins / Immagine 6: Una mano nel buio. Unsplash@laicho
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