Il 9 aprile 1945 il pastore protestante Dietrich Bonhoeffer all’età di 39 anni fu giustiziato nel campo di concentramento di Flossenbürg a causa della sua resistenza al regime nazista. Qualche anno dopo è stato pubblicato il libro «Resistenza e resa»1, una raccolta di lettere di Bonhoeffer dal carcere.
Traduzione dal tedesco: Italo L. Cherubini
Il titolo riassume la lotta di Bonhoeffer con due orientamenti di base. Non è assolutamente da leggere come una resistenza politica contro il sistema di ingiustizia di Hitler e una resa religiosa al destino. Per Bonhoeffer non è concepibile una tale spaccatura nella propria vita: resistenza e resa sono insieme espressione della sua religiosità. Per Bonhoeffer, essere cristiano non significa fede in un essere supremo e onnipotente, ma una nuova vita nell’«essere per gli altri». Questo «esistere per» esige la resistenza contro i poteri della morte. «Solo chi protesta a favore degli ebrei può poi cantare il gregoriano», scrive in modo provocatorio Bonhoeffer. Si preoccupava anche della credibilità della Chiesa, la cui voce non si alzava abbastanza a difesa degli ebrei perseguitati.
La passività non cristiana verso la sofferenza
La dottrina della Chiesa sulla sofferenza come punizione per i peccati ha portato nel cristianesimo ad avere un atteggiamento passivo nei confronti della sofferenza. Lo stesso vale per la convinzione che la sofferenza sia una purificazione o una prova che Dio ci chiede. Bisogna sopportare la punizione e ingoiare la medicina! Fortunatamente, oggi ci si è allontanati da un atteggiamento così uniforme. Sappiamo che la sofferenza non è semplicemente sofferenza, e distinguiamo tra una sofferenza che si può sopportare e una sofferenza ineludibile, tra la sofferenza con o senza colpa propria, tra una sofferenza senza senso e una sofferenza che ci fa crescere. Siamo anche consapevoli del fatto che chi intende la propria sofferenza o quella di qualcun altro come punizione non è interessato a cambiare le circostanze. Se non si tiene conto delle cause che fanno soffrire le persone, chi lavora può essere continuato ad essere sfruttato, la fame e i disastri naturali possono continuare a mietere le loro vittime. Una tale religione funziona davvero come l’oppio. Aiuta a sopportare pazientemente l’insopportabile e ci consola facendoci sperare in tempi migliori. Si dimentica il fatto originario della fede giudaico-cristiana: la liberazione dalla schiavitù in Egitto.
Il dolore di Dio
Il libro dell’Esodo ci parla di un Dio che è colpito dalla sofferenza degli esseri umani: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso […]. Ora va! Io ti mando dal faraone. Fa uscire dall’Egitto il mio popolo. […] Io sarò con te.» (Esodo 3,7.10.12) Il popolo d’Israele si fece coraggio, si ribellò e, sotto la guida carismatica di Mosè, si liberò dalla schiavitù. Donne e uomini si sono tramandati questo testo fondamentale della fede ebraica, come un bene prezioso nel corso dei secoli. Hanno tratto forza dal ricordo che la sofferenza e l’ingiustizia non lasciano Dio indifferente. Questo testo può anche incoraggiarci non solo ad allontanarci da un Dio sadico che punisce o educa attraverso la sofferenza, ma anche ad abbandonare l’idea che Dio regna sopra tutto e tutti, ed è intoccabile, indifferente al dolore e assolutamente superiore. Dio soffre con gli esseri umani che vengono derubati della loro dignità e oppressi. La Bibbia ci mostra un Dio appassionato il cui cuore batte con chi soffre.
Una diagnosi attuale: l’incapacità di soffrire
La società moderna occidentale ha ottenuto grandi successi nella lotta contro la povertà, le malattie e la miseria. Allo stesso tempo, però, la necessità di abolire la sofferenza ha portato a una peculiare incapacità di soffrire. Non abbiamo più la cultura di affrontare la morte, la malattia e la disabilità, la sofferenza in generale. Ci mancano il linguaggio e i gesti per saperla affrontare e anche il tempo. Nel bel mezzo della nostra vita tutto deve funzionare perfettamente. La nostra società richiede ordine, produttività, scienza, successo, estetica e design. Spesso manca lo spazio per lunghi e dolorosi processi di commiato o di crescita. Tuttavia, con il rifiutare la sofferenza, la vita perde la sua profondità. Anche la felicità e la gioia non possono più essere vissute intensamente. Nel momento in cui i tempi dell’attesa e della speranza, della sopportazione e della perseveranza non sono più necessari, perché tutto è sempre già lì, la vita si blocca e diventa noiosa. Una società che vuole abolire la sofferenza a tutti i costi non ha la forza di opporsi alla sofferenza: la sofferenza è repressa o elegantemente evitata. Ma non possiamo sfuggirle a meno che non vogliamo rifiutare di vivere. Se non vogliamo pagare questo prezzo, dobbiamo affrontare la sofferenza.
Crescere attraverso la sofferenza – imparare dalla sofferenza: cambiare attraverso la sofferenza
Il distacco, il dolore, la paura, l’impotenza e la frustrazione fanno parte della vita. Possiamo imparare a vivere gli addii consapevolmente, ad ammettere il dolore, ad affrontare le nostre paure. Affrontando la sofferenza possiamo maturare. Le persone parlano, spesso solo dopo, del senso che hanno visto nella loro malattia e nella loro sofferenza. Nella sofferenza, le persone sperimentano la possibilità di vedere la vita in modo nuovo, di vivere una nuova vita. Potrebbero avere più tempo e godersi la lentezza. Scoprono nuovi talenti. La propria sofferenza li rende più sensibili alla sofferenza e ai bisogni degli altri. L’esperienza della propria fragilità li fa crescere nell’amore, nella cura del mondo.
La sofferenza può renderci più umani. Sorprendentemente, questo vale anche per le sofferenze che le persone causano l’un l’altra per egoismo, indifferenza, odio, brama di potere o cattiveria. Vediamo che la sofferenza sociale, l’ingiustizia e la persecuzione, rendono le persone senza parole, amareggiate e disperate. Vediamo però anche persone che da questa sofferenza vengono chiamate alla resistenza. La memoria delle vittime della guerra e della violenza fa sì che amino ancora di più la vita e le incoraggia nella loro lotta. La protesta per le proprie e altrui sofferenze fa crescere le loro speranze. È amaro quando le speranze muoiono ogni volta. È una sofferenza insensata quella che distrugge le persone nel loro intimo e le priva di ogni possibilità di essere attive pur soffrendo.
Aprirsi alla sofferenza: per quale motivo? Per cosa?
L’impegno attivo con la sofferenza è un presupposto per la resistenza e la resa. È resa non significa sottomissione. Ci sono strade da percorrere fino a quando non riusciremo ad accettare la sofferenza. Percorsi dolorosi, perché la sofferenza non va accettata con pazienza, ma con impegno. Solo se ci lasciamo toccare, se possiamo piangere e lamentarci, allora il cambiamento è possibile. Forse riusciremo a passare dalla domanda retrospettiva sul perché della sofferenza alla domanda «Per cosa? Per quale motivo?» In questo modo possiamo aprirci alla sofferenza alla luce delle promesse di Dio.
«Poter credere significa dire sì a questa vita, a questa limitatezza, lavorare su di essa e tenerla aperta per il futuro promesso.» (Dorothee Sölle)
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